Le Bertate di Berto
A MIO PADRE
Salve a tutti, innanzitutto, Vi ringrazio per essere venuti a visitare questo sito che ho deciso di creare in commemorazione di mio padre.
Questa è la storia della sua vita, in versione divertente, accompagnata da simpatiche vignette, scritta e redatta in modo semplice, come semplice era stata la sua vita.
Si tratta di simpatici aneddoti che vanno dall’infanzia dell’autore, ossia circa gli anni trenta, passando attraverso la guerra, la povertà di quei tempi, un incontro con Mussolini, l’amore per lo sport, fino ad arrivare ai giorni nostri.
La stesura di questo libro e’ cominciata , ma purtroppo lui e’ riuscito a vederne solo una bozza e non la pubblicazione vera e propria.
Comunque non voglio farvi perdere altro tempo in chiacchiere.
Grazie di nuovo.
Ringrazio anche la mia amica e collega cinzia per aver collaborato nella stesura del libro
Quando ho parlato di questo assemblaggio di ricordi ai miei fratelli, loro mi hanno consigliato di non pubblicarlo, poiché sostenevano che tutti, chi più chi meno, hanno delle storie simili da raccontare e che non mi dovrei commemorare; ma io ho pensato che qualcuno, prima o poi, lo avrebbe fatto, e allora: perché non io?
Comunque un piccolo messaggio è qui contenuto: ho voluto illustrare ai giovani come erano duri i (bei) vecchi tempi della povera gente.
Ma, il motivo principale per cui ho scritto questo libro, è quello di pubblicare la poesia sul marinaio, che ho composto quando avevo 15 anni e che a me sembra molto bella.
Una cosa: vi consiglio di leggere questo libercolo a rate, altrimenti lo finireste in una sola ora, pur di conoscere la cretinata (o, come le ho battezzate io: Bertate) che segue.
Questo è il primo e l’ultimo libro che scrivo poiché il Berto, a compiere queste imprese, ci ha impiegato circa 70 anni e non credo di camparne altrettanti.
A proposito, come forse avrete capito, il Berto sono io, per cui non lasciatevi ingannare dal fatto che alcuni racconti sono scritti in prima persona e alcuni altri in terza persona, il protagonista assoluto di queste vicende sono sempre io.
Comunque, se dovessi rinascere sotto la specie animale e avessi l’opportunità di scegliere, vorrei essere un elefante, così potrei fare una scultura come quella del settimo episodio, ma più mastodontica!
I disegni sono approssimativi, specialmente quelli riferiti ai primi ricordi, che sono stati tradotti dal disegnatore con libera e fantasiosa interpretazione.
Prima (Bertata)
BERTO A CARAVAGGIO
Nel 1935 avevo 3 anni, vivevo a CARAVAGGIO e mi ricordo che i miei fratelli ed io, buttavamo del pane raffermo, duro come pietre, in un canale che costeggiava un cappellificio, allo scopo di farlo ammorbidire per poi recuperarlo più a valle, appostati sopra ad un ponticello.
Pensate un po’ al sapore che aveva quel pane immerso nel canale ove il cappellificio sicuramente scaricava i residui delle tinture.
Proverò ad elencarvi le qualità di quel pane: molle, flaccido, al gusto di tintura di iodio; ma, nonostante ciò, ci riempiva lo stomaco.
Il cappellificio si trovava di fronte al cortile dello stabile dove abitavamo, il quale veniva chiamato “Manicomio” o “Casa Argentina”.
Io, però, nacqui in un luogo più nobile e, precisamente, in via Valle, che è la prima via a sinistra sulla strada che porta al Santuario, al nono fabbricato, chiamato allora “CASINET”.
Davanti alla casa c’è ancora una chiusa in ferro per il fosso.
Mi ricordo che allora mio padre era soprannominato “EL FIOL DEL BICERI” perché mio nonno beveva esclusivamente in certi bicchierini, presumibilmente liquori; dunque, io sono “EL FIOL DEL FIOL DEL BICERI” (quale onore!).
Se dovessi inventare uno stemma di famiglia, metterei quattro bicchierini ai lati con al centro della polenta, in ricordo di mio nonno “EL BICERI” che, pare, sia morto a causa di una fetta di polente fredda.
Nel 1937 ci trasferimmo a Milano, grazie al fatto che mio padre aveva guadagnato qualche soldo andando in Africa a scavare trincee e costruire strade.
Andammo ad abitare in via BORGOGNA al n.2, con l’aiuto di mio zio Doro, che già abitava nella grande metropoli.
Io mi trasferii qualche giorno prima degli altri e andai a stare con mio zio, il quale era ospite, in via Verziere, presso una sua amica.
Ricordo che quando arrivarono i miei da CARAVAGGIO, avevano paura ad attraversare la strada e, perciò, li aiutai io, che allora avevo cinque anni, visto che ero già pratico!.
Seconda
Berto al catechismo
Frequentavo il corso di catechismo all’oratorio di S.Carlo al Corso.
Un bel giorno fui interrogato da padre Davide, il quale sostituiva il sacerdote che di solito ci faceva il catechismo, e mi disse: “Berto, spiegami il Mistero della Santissima Trinità” cioè che Dio è uno e trino, ma siccome a quei tempi pensavo solo a giocare, alla domanda risposi confusamente, quasi alla Fantozzi.
Per punizione, il padre mi fece mettere in ginocchio in un angolo e, siccome c’erano dei sassolini per terra, cercavo di spostarli da sotto le ginocchia, ma una voce perentoria dall’accento friulano mi disse di lasciarli sotto, e mi tenne in quella posizione per parecchio tempo.
Ogni volta che padre Davide iniziava il catechismo, diceva: ”se a qualcuno non interessa, se ne vada pure ”e di solito solo uno aveva il coraggio di uscire, un certo Zanini che abitava in via Durini.
Di padre Davide ricordo parecchi episodi, d esempio le prediche che faceva in Duomo, da far venire i brividi ai Milanesi.
Ho rivisto il Sacerdote diversi anni dopo, a Sotto il Monte, abbiamo pranzato insieme, lui era con i suoi aiutanti e io con la mia famiglia; gli ho ricordato i tempi passati e lui per tutta risposta mi disse: “è meglio non parlarne!”.
Dopo alcuni anni sono andato al suo funerale.
Di una cosa mi rammarico: che nessuno parli più di lui.
Dei miei compagni d’oratorio, ricordo che uno, di cui non ricordo il nome, morì annegato a bordo di un sommergibile che affondò e qualche altro venne messo nell’elenco dei condannati a morte per antifascismo.
Terza
Berto e la cresima
Era arrivato anche per me, il fatidico giorno della Cresima, nel Duomo di Milano,e a celebrare il sacramento vi era il Cardinale Schuster.
Avevo circa 9 anni e mi recai in Duomo da solo,dove avrei dovuto incontrare mio zio Doro, abbreviazione di Teodoro che era il mio padrino, o almeno avrebbe dovuto esserlo, visto che a un certo punto la cerimonia ebbe inizio e mio zio, che a quel punto non mi sembrò più molto: “D’oro”, non era ancora arrivato.
Nel frattempo il Cardinale si stava avvicinando a me e io, non sapendo cosa fare, chiesi al padrino del ragazzo che mi stava accanto di appoggiare la mano libera sulla mia spalla e così fece da padrino anche a me.
Il Cardinale non si accorse di nulla, o forse era prassi comune, booh!; fatto sta che ancora oggi non so se la mia Cresima sia valida oppure no e soprattutto, chi è il mio padrino?.
Mio zio Doro, che oramai non consideravo più “D’oro” ma di “Latta”, arrivò quando stavamo uscendo dal Duomo!.
Nonostante ciò ho sempre un bel ricordo di mio zio, che da giovane era un bellissimo uomo.
Mi ricordo che un giorno mi trovavo davanti al “manicomio” un caseggiato chiamato così perché vi abitavano diverse famiglie e per questo soprannominato anche “Casa Argentina”, mio zio arrivò con una moto d’avanti al cancello, e si mise a fare il pieno d’acqua e io, che allora avevo 4 anni, gli chiesi: ”ma va ad acqua?” e lui mi rispose: ”l’acqua la metto nel radiatore”.
Eravamo nel 1936
Ora del “manicomio” è rimasto ben poco: non ci sono più i vecchi caseggiati con le ringhiere, il cortile spazioso e nemmeno il cappellificio c’è più; il canale è la sola cosa che è rimasta circa come allora.
Quarta
Berto a tu per tu con il Duce
La prima volta che vidi Mussolini stava transitando in P.za s. Babila attorniato dalle sue milizie.
Io mi trovavo sul marciapiedi in compagnia del mio caro amico Ugo, che abitava con me in Via Borgogna.
Siccome lui era vestito da figlio della lupa mentre io no, quando Mussolini si avvicinò, sollevò Ugo e disse: ”Questi sono l’avvenire dell’Italia”, mentre a me fece finta di non vedermi.
La seconda volta che vidi il Duce, era al balcone del palazzo reale in P.za del Duomo e, dopo un discorso infuocato, chiese ai Milanesi: “Volete voi la guerra?” e i Milanesi gridarono: “Si”, quell’urlo mi fece rabbrividire.
Io avevo 9 anni circa e siccome non vedevo nulla,annaspavo dietro a un signore, il quale se ne accorse e mi prese in spalla, così potei godermi lo spettacolo.
Avrei potuto rivedere il Duce una terza volta, appeso in piazzale Loreto, ma fui l’unico dei miei amici a non andare, non mi interessava, infatti dissi loro che i morti vanno rispettati, qualsiasi cosa abbiano fatto da vivi.
A proposito di fanatici; mi torna in mente un altro episodio:ero andato a una festa, in Via Unione vicino a P.za Missori, dove distribuivano dei pacchi dono.
Al ritrovo notai un ragazzo di poco più grande di me, vestito da “Avanguardista”, con un grosso pugnale alla cintura; io gli chiesi di farmelo vedere, ma lui mi rispose senza esitare che il pugnale si estrae solo per uccidere ,o per uccidersi!.
Era prima della guerra e io rimasi allibito dalla grinta dimostrata da quel ragazzo.
Quinta
fock e fiamme
Milano brucia
Berto e famiglia sotto i bombardamenti
Pensate che in quel periodo avevamo libero accesso ai vari rifugi e cosi potevamo scegliere sotto quale palazzo avremmo potuto morire!
Noi ragazzi nel rifugio giocavamo,mentre sopra di noi piovevano bombe.
Chi era preoccupato era mio padre,ogni tanto usciva dal rifugio per controllare e quando ridiscendeva, diceva sempre la stessa frase, che ripeteva sempre due volte: fock e fiamme.
Una volta, risalendo in casa dopo il cessato allarme, mentre mi stavo rimettendo a letto, mi accorsi che al posto dei soliti mutandoni di lana, si usavano poiché non cerano i riscaldamenti avevo infilato le gambe in una maglia di lana e non so come avevo fatto insonnolito com’ero, a camminare nel rifugio con la maglia al posto delle mutande!
Un’altra volta, dopo un bombardamento, mio padre ed io andammo a vedere gli effetti delle incursioni aeree in corso Monforte, giunti in piazza Tricolore,una signora ci disse che poiché il suo appartamento stava per essere raggiunto dalle fiamme, ci avrebbe pagato bene se le portavamo i mobili giù in strada,ma mio padre rifiuto dicendo: “Mi dispiace ma è troppo pericoloso”.
Ma poco più avanti, vedemmo un salumiere che stava buttando fuori dal suo negozio molti prosciutti e salami e a lui mio padre, invece, chiese se occorresse un mano, gli disse addirittura che eravamo disposti a fare la respirazione artificiale ai prosciutti, pur di salvarli visto che erano in pericolo, ma lui ci rispose che li avrebbe salvati tutti da solo.
Spero che gli sia venuto il verme solitario!.
SESTA
LA BOMBA, 1941
Trovai una bomba inesplosa, la portai a casa e la misi sotto il rubinetto dell’acqua, per poi svuotarla e recuperare la polvere e il metallo da vendere.
Mi o padre, però, mi ordinò di portarla via subito, così, anche se a malincuore, la consegnai ad un vigile in piazza San Babila, il quale chiamò un artigliere che stava passando di là e gli disse d portarla alla caserma più vicina.
Probabilmente il militare era in libera uscita, visto che prendendo l’ordigno fece una smorfia e si allontanò felice e contento.
A quei tempi, si cercava di recuperare i metalli, come l’ottone, il piombo e il rame per poi rivenderli.
Noi ragazzi ci aggiravamo nei caseggiati bombardati in cerca dei metalli, appunto, e visto il mio acume nelle vesti di ricercatore, anche gli adulti mi seguivano e copiavano che facevo, come se fosse di moda.
Ad esempio, come prima cosa, si scavava alla ricerca delle siringhe che avevano all’estremità gli stantuffi di ottone, poi si proseguiva coi caloriferi rotti e i tubi di piombo, alla fine ci mettemmo a staccare le piastrelle.
Un giorno, il mio amico Ugo ed io, ci trovammo su di un tetto dove un tizio, forestiero, aveva staccato delle putrelle di terra; noi lo mandammo via perché quella era la nostra zona e, intanto che rientravamo, sentimmo che il tetto sotto di noi stava crollando a causa delle putrelle che il forestiero aveva staccato; così ci mettemmo a correre, mentre tutto il tetto stava cedendo sotto di noi e ci mettemmo in salvo, veloci ed agili come i gatti.
Ugo era il più spericolato di tutti, a volte correva su dei muri alti 20 metri, larghi un mattone appena, io avevo paura per lui ma, per fortuna, andò sempre bene sia a lui che a me.
SETTIMA
BERTO SCULTORE
Berto non volle di proposito usare le mani in quell’occasione, poiché aveva intenzione di stabilire un record mai tentato.
Per circa un anno plasmò, con una tecnica tutta sua, il monte di merda più alto che ci fosse, che alla fine risultò essere alto 1 metro e 30 cm e lo intitolò “Qui cicago’ “.
Per fortuna, iniziò l’opera sotto una finestra, visto che dopo qualche tempo cominciò a trovarsi in difficoltà a causa dell’altezza che la scultura aveva raggiunto man mano, ma il nostro Berto non si perse d’animo e, salito sul davanzale, completò l’opera da lì; aveva anche pensato di continuare con una scala, ma aveva paura di cadere dalla parte sbagliata e rovinare, così, la sua creatura.
Toccò ad una partigiana, l’ingrato compito di demolire la scultura, poiché voleva impossessarsi di quei locali diroccati di Via Durini.
Disse proprio alla madre di Berto, mentre egli era presente: “Signora Luigia, venga a vedere cosa hanno fatto i muratori!” e assieme si complimentarono per la plasticità dell’opera!.
Sappiate che, per dare più consistenza al materiale che usava, il nostro amico mangiava le spagnolette con tutto il guscio.
A qualcuno quest’opera potrà sembrare una cosa facile ma, pensateci bene: prima di tutto bisogna avere a disposizione un luogo appartato; secondo, bisogna avere l’ispirazione; terzo, per poter modellare quello che la natura ci fornisce, bisogna tenere conto della stabilità del manufatto e perciò calcolarne la giusta consistenza per potere innalzare la scultura; quarto, a tutti gli artisti, al termine della propria opera, viene voglia di abbracciare ciò che hanno creato, mentre a Berto questa soddisfazione è stata negata (non che ci tenesse molto, a dire il vero); quinto, non ha potuto rivelare al mondo intero quello che aveva creato e così non è potuto entrare a far parte del Guinnes dei Primati.
Ottava
Berto ferito grave
Berto, come al solito molto indaffarato, si aggirava in via Francesco Sforza, nei pressi di dove, dicono, era situato il Ponte delle Sirenette.
La villa era disabitata e Berto scavalcando il muro di cinta, come era sua abitudine, cercava delle rose selvatiche che poi trapiantava, anche se con scarsi risultati, visto che quasi sempre morivano.
Quella volta, però, qualcosa andò storto, infatti saltando giù dal muro di cinta, con gli zoccoli, sul prato sottostante, si andò a infilare con il calcagno su degli spuntoni di ferro che erano nascosti nell’erba. Si trovò sanguinante, con lo zoccolo rotto e una lunga punta di ferro ritorto conficcata nel tallone, in profondità. Dopo vari strattoni riuscì a liberarsi e, zoppicante, rientrò a casa, tenendo segreto l’accaduto.
Tornando agli spuntoni, era posti lungo tutto il muro di cinta, evidentemente Berto scavalcava proprio dove ne mancava uno, che era caduto nell’erba alta che lo nascondeva.
In quel periodo, i giardini delle ville erano incolti e le case probabilmente disabitate, poiché Berto non ha mai visto segni che indicassero il contrario ed in effetti non sa nemmeno lui il perché abbia scavalcato il muro, visto che il portone che dava su via degli Arditi era sempre aperto!
Il nostro eroe era appassionato di giardinaggio e teneva una trentina di vasi su di un ballatoio che si affacciava sul cortile che aveva l’ingresso in via Durini, che era poi una casa bombardata.
Seminava le zinnie e quando trovava qualche rosa la trapiantava, così si era creato il suo giardino privato.
NONA
LA MADONNA LA M’HA SALVA’
Quella nel titolo fu la frase che dissi a mio fratello Paolo che mi stava cercando, dopo essere precipitato con tutto il pavimento al piano di sotto di una casa diroccata dai bombardamenti, saltando da un camino di un locale soprastante.
Mio fratello estrasse dal mucchio di macerie la mia mantellina perciò credette che mi trovassi là sotto, invece io stavo andando su e giù per le scale per cercare di fare passare il dolore per la caduta.
La Madonna che intendo io è quella di Caravaggio che credo mi abbia sempre protetto durante la mia vita, e alla quale, ancora oggi, mi rivolgo quando mi trovo nei guai.
Ricordo che da bambino, a Pasqua, andavamo al Santuario per fare benedire le uova sode, portavamo due piatti , avvolti nei tovaglioli, con una decina di uova ciascuno e, dopo la benedizione ne offrivamo uno al Santuario.
Oggi, ripensandoci dopo tanti anni, mi chiedo se valeva proprio la pena di trasferirci a Milano.
Quando vado a Caravaggio, guardandomi in giro. Mi accorgo che stanno meglio di noi che siamo andati ad abitare a Milano nel 1937, infatti, che io sappia, a Caravaggio non è mai morto nessuno di fame, semmai qualcuno sarà morto di sete (sì, sete di Barbera!).
Decima
Berto studia minga
Studiò tanto cosa fare per non studiare,che alla fine ci riuscì: e chiese a suo padre di mandarlo a lavorare.
Il primo impiego,a dieci anni, fu di garzone presso un parrucchiere per signora in via Durini, di fronte al negozio vi era l’insegna del ristorante: “El Boecc”.Dopo alcuni anni di lavoro, e un po’ di malizia in più, capii perché il parrucchiere era solito chiudersi in uno stanzino con le clienti e ne usciva dopo un po’ tutto sudato, che gran lavoratore.
Berto e la fame
Ricordo che quando ero ragazzino, mia madre comperava 8 Kg di pane tutti i giorni e dopo ogni pasto doveva chiudere a chiave ciò che ne restava, altrimenti lo mangiavamo tutto,visto che eravamo sette tra fratelli e sorelle sempre affamati.
Sapete cosa si mangiava ogni mattina? Pane e latte; ma che pane! E che latte! Il pane era nero come il carbone e dal latte nostra madre prima ricavava il burro e il siero che rimaneva era il nostro… latte.
In tempo di guerra,nel periodo in cui fummo sfollati a Caravaggio,a casa di nostra nonna, in Via Bianchi dove c’era un negozietto di ciclista, le cose cambiarono.
Ad esempio ricordo che alla sera la cena era composta da polenta e latte mentre, la sera dopo il menu cambiava, e c’era polenta e verza e cosi per dei mesi.Cosa si mangiava a mezzogiorno non lo ricordo, ma non era cosi divertente come alla sera.
Siccome mio zio Angelo lavorava, per cena , mentre noi mangiavamo solo polenta e verza, a lui veniva anche dato un piccolo salamino e per non farsi vedere nascondeva il piatto con le mani, cosi noi ci saziavamo con le verze e l’odore del salamino.
Non avendo la radio, noi fratelli più qualche cugino, ci divertivamo facendo a gara a chi scoreggiava di più e tra le risa andavano a letto, in sei nello stesso!.
Undicesima
sfollato a Castel Goffredo
In tempo di guerra, i ragazzi di Milano venivano ospitati in varie regioni per salvarli dai bombardamenti.
Io sono stato accolto, o come si diceva allora: “sfollato”, da una famiglia di contadini, all’interno del quale il mio compito era quello di accudire alcune mucche nella stalla.
Tra le altre cose, che sono accadute in quel periodo, mi ricordo che si pigiava l’uva e che poi bevevo il mosto dolcissimo che se ne ricavava.Ma quel che più mi è rimasto impresso è che a pranzo c’era quasi sempre pollo, e fin da subito i componenti della famiglia stabilirono che, come sfollato Milanese, io avessi sempre la prima parte del pollo e cioè la testa, cosi ho mangiato centinaia di teste di gallina, accrescendo il mio intelletto per via del cervello che ingerivo.Per fortuna, vi era in famiglia una bambina più piccola di me,che a furia di dirle che la testa era buona qualche volta sono riuscito a convincerla a scambiarci le porzioni, cosicché in quelle occasioni mangiavo delle ali.
Mi ricordo inoltre che noi ragazzi correvamo scalzi nei campi di frumento tagliato, si correva forte per non pungersi, tanto che mi sembrava di volare.
Da dove mi trovavo per raggiungere il paese andavo a piedi e qualche volta sulla canna della bicicletta.
Ogni quindici giorni andavo a piedi a trovare mio fratello Emilio che si trovava in un paese, di cui non ricordo il nome, lontano almeno 13 chilometri dal mio.
Vi voglio raccontare un ultimo episodio di quel periodo: una volta sono andato con il capofamiglia a prendere l’uva per fare il vino e siamo andati a Parma con un carro trainato da un cavallo.
Al ritorno lui si è fermato a mangiare in un trattoria e mi ha lasciato di guardia dell’uva con una frusta in mano con la quale mandavo via i ragazzi che volevano mangiarci l’uva.
Poi siccome sulla strada del ritorno il mozzo della ruota si stava rompendo per il peso, io feci il tragitto Parma Reggio Emilia tutto a piedi bagnando con dell’acqua il mozzo, utilizzando un secchio e un barattolo,mentre lui ha fatto tutta la strada a cavallo; però quando siamo arrivati mi ha elogiato davanti a tutti i suoi familiari.
(è già qualcosa,non vi pare?)
DODICESIMA
BERTO LANCIATORE DI CACHI
Mi trovavo in via Passerella con degli amici, quando vidi che stava transitando un ragazzo che conoscevo, il quale aveva un sacchetto di cachi in mano; ispirato dal solito spiritello megalomane, gli dissi che sarei stato capace di centrarlo in faccia dalla distanza di 15 metri.
L’ingenuo ragazzo, un po’ masochista, ci pensò un po’ e poi rispose: “ Però, se mi manchi, mi paghi il caco” e, per precauzione, si appostò alla distanza pattuita voltandomi le spalle, pensando sicuramente di essere molto furbo.
Presi la mira e centrai in pieno la nuca del poveretto, il quale rimase come intontito, a gambe aperte, con il caco che gli colava nella camicia; risvegliato dalle risa dei ragazzi presenti, disse: “Adesso lo dico a mia madre!” e si allontanò piangendo.
La via Passerella era, per noi ragazzi, un luogo di ritrovo perché vi era un grande cortile chiamato “Arena”, nel quale si poteva giocare a pallone e in più, ogni tanto vi proiettavano dei film all’aperto e degli incontri di lotta libera, a pagamento, che invece noi vedevamo a sbafo, appollaiati nelle case bombardate di via Durini che si affacciavano nel suddetto cortile.
Sempre in via Passerella , abitava la famiglia Pistilli, fra i cui componenti il figlio maggiore divenne famose come attore, noi eravamo, invece, amici del figlio minore, che poi morì giovanissimo, purtroppo.
Conoscevamo anche la famiglia Cipolla, il cui figlio maggiore suonava il violino, mentre il fratello minore era un pugile dilettante, ma con una perfetta impostazione pugilistica.
Si allenava con me in palestra o nella sua cantina, dove per la prima volta gli vidi fare un esercizio molto spettacolare, anche se non propriamente di pugilato: prendeva una rincorsa di circa 3 metri e poi quando arrivava vicino al muro faceva una capovolta all’indietro, appoggiando i piedi al muro e ricadeva in piedi sul pavimento.
TREDICESIMA
BERTO E IL PARTIGIANO
Durante la Liberazione di Milano, Berto si trovava in Via Durini a prendere al volo i bossoli che uscivano dal mitra di un partigiano, asserragliato in un palazzo di fronte a via Borgogna, mentre stava sparando ad un fascista che si trovava in uno stabile in corso Monforte, le cui finestre davano su via Borgogna; la distanza fra i due era di circa 200 metri.
Quando ormai Berto ebbe riempito il cappello di bossoli d’ottone (metallo che poi vendeva ai rigattieri), disse al partigiano: “Guarda che tu non ci arrivi a colpirlo col tuo mitra, al contrario il fascista ci arriva benissimo col sul fucile”, a giudicare dai proiettili che si conficcavano nell’asfalto a pochi passi davanti a sé.
Berto, molto furbo, se ne guardò bene dal dire anche al fascista di alzare il tiro per colpire l’avversario, perché avrebbe raccolto meno bossoli se il partigiano veniva colpito!
Poco dopo, il partigiano seguì il consiglio di Berto e si avvicinò al palazzo con alcuni compagni e catturarono il fascista, non si sa se poi l’uccisero.
Passò, più tardi, un’auto con dei partigiani; uno di loro era fuori dalla vettura, attaccato allo sportello, stavano percorrendo Via Borgogna diretti in Via degli Arditi ma, in una curva, il ragazzo il ragazzo che era appeso alla portiera, cadde e si ruppe una spalla; così finì la sua Liberazione di Milano!
Berto ricorda che in quel periodo i Tedeschi che si arrendevano passavano in piazza della Scala, armati di tutto punto, si asserragliavano all’interno de Il Corriere della Sera e si arrendevano solo agli Americani.
La gente in piazza della Scala applaudiva mentre i Tedeschi si ritiravano con i loro mezzi, poiché li scambiavano per Americani oppure per paura di eventuali ritorsioni successive.
Per la precisione, sappiate che sul disegno appare l’insegna del ristorante EL BOEUCC, in realtà si era trasferito qualche anno prima rispetto agli avvenimenti qui raccontati; ho voluto metterla in ricordo dei tempi in cui ci saziavamo coi soli profumi che provenivano dal ristorante.
Quattordicesima
Berto poeta
Essendo Berto un ingegno poliedrico,dalla prima esperienza,come scultore,passò alla poesia e concepì un poema.
IL MARINAIO
Nato dal mare
Preso dal mare
Come fosse cosa sua
Nato da madre quasi sirena
Nato su terra quasi per caso
Del mare è fratello,di Nettuno è gemello
E nelle vene non sangue contiene,ma schiuma di mare
Come esil gabbiano in ogni lui dove vola
Lasciando il suo nido in porti lontani
E se a terra lui scende la sera
In bettola nera lui si va a rintanar
E se la morte lo coglie di grazia sul mare
Al mare viene donato
Mentre dolci sirene quando in mare vien calato
L’avvolgon di schiuma e di stelle di mare
Non più su dura cuccetta or dorme la sera
Ma riposa sull’onda leggera.
QUINDICESIMA
BERTO IMPRIGIONATO
Dopo aver difeso l’ingresso del Campanile di San Carlo al Corso da una ventina di assalitori, Berto e il suo amico Ezio Peverada, che lo aveva aiutato nell’ardua impresa, vennero rinchiusi a tradimento nel campanile stesso, durante un momento di tregua concordata.
E li avrebbero fatti morire lì, di stenti, a meno che non avessero implorato di liberarli.
Ma Berto non si perse d’animo ed escogitò un sistema per liberarsi; doveva riuscirci a tutti i costi, ne andava del suo onore!
Avrebbe attaccato la banda rivale alle spalle.
Salì sul campanile, tirò su la corda del Campanone e, dopo averla accuratamente fissata, si calò giù attraverso una finestrella che si trova sul lato posteriore, seguito dal suo amico e, con grande stupore, presero il nemico alle spalle, saltarono sui malcapitati, i quali rimasero impietriti dalla sorpresa.
Per rendervi conto della portata dell’impresa che Berto compì, dovreste andare a vedere a che altezza si trova la finestrella dietro al campanile di San Carlo a Milano, e pensate che all’epoca il nostro eroe aveva solo 15 anni!
A San Carlo, Berto faceva parte di un gruppo del quale, per rispetto, non ha voluto fare il nome.
Era un gruppo di gente fuori dal comune e con loro passò gli anni più belli della sua vita.
Lasciò la compagnia perché si sentiva un pesce fuor d’acqua, loro erano tutti studenti, mentre Berto che lo studente l’aveva fatto ben poco, non poteva partecipare ai loro discorsi, perciò si creò un suo spazio all’interno del gruppo sfruttando la propria forza; fu così che lo chiamarono: “Berto il Massacratore”, abile taglialegna nei vari campeggi.
Ogni tanto qualcuno dei ragazzi lo metteva alla prova sfidandolo alla lotta e lui, puntualmente, li scaraventava a terra.
Dopo il militare, però, lasciò il gruppo poiché il divario fra loro si fece ancora più pesante, ma ne ricorda sempre con affetto tutti i componenti, specialmente Mario, che era il capogruppo.
Sedicesima
Berto e la mucca a due gambe
Agghindato col vestito della festa,mi stavo recando alla Santa Messa, ma era un po’ presto e il: “Destino”mi disse di passare da via Pascuirolo giunto a metà,vidi a una finestra una: “Mucca a due gambe”che esercitava la sua professione in quella via.
Ridendo lei mi rovesciò, di proposito in testa un catino d’acqua sicuramente non potabile e, sempre sghignazzando, si ritrasse,lasciando per sua sfortuna la finestra aperta.
Ma, anche preso alla sprovvista, non mi persi d’animo e, vedendo lì vicino un catasta di circa 40 mattoni addossati al muro, messi lì casualmente dal: “Destino” che mi disse: “Berto sposta i mattoni”e così con precisione ad uno ad uno tirai tutti i 40 mattoni attraverso la finestra,senza che nessuno fiatasse e mi allontanai appagato,pensando al: “Destino”che mi aveva riservato quella strana avventura, proprio a me doveva capitare?.
Diciassettesima
Berto coccodrillo pentito
Aveva nevicato e Berto che si allenava al lancio delle palle di neve(per un eventuale Olimpiade), vedendo passare una ragazza con l’ombrello,gliene tirò una che cadde giusto sull’ombrello alla quale ne seguirono almeno altre 7 che colpirono sempre lo stesso bersaglio.
Il guaio fu che vedendo un’altra ragazza sul marciapiedi di fronte,in corso Roma,le tirò una palla di neve che la colpì in piena faccia,cosicché la poverina cadde a terra piangente.
Quel deficiente del Berto, dispiaciuto,rimase per un po’ a guardare la ragazza che veniva soccorsa dai passanti, i quali inveivano nei suoi confronti, così si allontanò sconsolato e dopo 50 anni chiede perdono alla ragazza.
Per i ragazzi, tirare le palle di neve ad una ragazza era un modo per farsi notare e per tentare di scambiare qualche parola, quel gesto era come lanciare un messaggio, ma purtroppo, quella ragazza non poteva nemmeno imprecare, poiché era caduta con la faccia nella neve ed il messaggio lo aveva recepito nel modo peggiore possibile.
Diciottesima
Berto Innamorato
DICIANNOVESIMA
CACHI UGUALE BICI
Ecco come fece Berto a comprare la bicicletta da corsa:
Primo, trovando un borsellino senza documenti, contenente 10.000 lire, grazie alle quali acquistò il telaio di una Rossignoli.
Secondo, mangiando per circa un anno esclusivamente un chilo di cachi al giorno, nel periodo in cui lavorava in una piccola ditta che faceva guarnizioni per automobili; sua madre gli dava i soldi per comprarsi da mangiare in latteria, ma per completare la bicicletta mangiò per tutto l’inverno i cachi gelati e, coi soldi risparmiati, riuscì a prendere il resto dei componenti della bici che poi montò da solo, pezzo per pezzo, compresi i raggi.
Qualche tempo dopo, mentre con l’amico Ezio stava andando a Borgoferte in bicicletta, li sorpassò in macchina il signor Rossignoli in persona con la moglie, il quale, vedendo che le loro bici era appunto due Rossignoli, disse loro di passare al suo negozio di corso Garibaldi, che avrebbe fatto loro dono di 2 PALMER a testa.
Berto gli spiegò che la sua bici l’aveva costruita da solo, acquistando tutti i pezzi originali, sostenendo perciò una spesa maggiore di Ezio che l’aveva comprata già bella che pronta.
Era meglio che fosse stato zitto, poiché a Ezio regalò 2 palmer, mentre a Berto 1 solo, visto che per il signor Rossignoli la sua bici non era un’originale, anche se aveva acquistato tutti i pezzi nel suo negozio.
VENTESIMA
E’ IL PERIODO DELLE TURBOLENZE POLITICHE
Piazza del Duomo era gremita di manifestanti che, a piccoli gruppi, inneggiavano per l’una o per l’altra fazione politica.
Molto probabilmente, si trattava di manifestazioni non autorizzate, poiché era pieno di poliziotti che randellavano a destra e a manca.
Io all’epoca lavoravo per un negozio di Via Montenapoleone e stavo rientrando da una consegna col mio tre ruote a pedali o, come lo definivo io, il mio furgoncino, quando mi ritrovai nel pieno del trambusto e, giusto per un soffio, evitai, abbassandomi, una randellata e altre ancora le evitai spostandomi col mio tre ruote sotto il porticato, da dove poi rientrai in tutta fretta nel negozio.
A proposito di elezioni, ricordo che coi ragazzi del rione San Carlo, andavamo, con vernice e pennelli, in pizza San Babila e nelle vie adiacenti, a scrivere sui vari manifesti elettori la parola: “PAX” per contribuire, a modo nostro, alle elezioni.
Erano periodi di vero entusiasmo e di speranza in un futuro migliore.
VENTUNESIMA
BERTO E IL FURGONCINO A SCOPPIO
A quell’epoca, Berto faceva il fattorino per un negozio di via Montenapoleone, utilizzando per le consegne un furgoncino a pedali.
Nel periodo di Carnevale, durante una commissione giù per la discesa dei Bastioni di Porta Venezia, vicino ai Giardini Pubblici, il nostro amico escogitò un sistema di frenata … con il botto! Metteva un petardo nel freno a mano e, quando gli pareva il momento migliore, lo faceva scoppiare facendo, ovviamente, spaventare i passanti.
Quelli sì che erano momenti spensierati! Ma solo fino a un certo punto, poiché si ritrovava, ormai non più ragazzino, senza aver imparato un mestiere.
Aveva lavorato con un operaio elettricista, il quale, però, non gli insegnò nulla, e lo fece di proposito, poiché essendo egli più anziano aveva paura che se Berto imparava troppo, lo avrebbero licenziato; così gli faceva fare solo lavori di scasso (cioè le tracce nei muri) e la posa dei cavi elettrici, ma quando si trattava di fare gli allacciamenti, interveniva sempre lui.
In questo modo, il nostro eroe, tirò avanti fino alla Naja
Al termine del servizio militare, trovò posto in una grande azienda dove, a poco a poco, riuscì a farsi apprezzare e lì ha trascorso quasi 35 anni ed ora è pensionato. (Si fa per dire, perché Berto è sempre super attivo).
VENTIDUESIMA
BERTO E IL CONTADINO – PORCO
Un giorno partecipai, come allievo, ad una gara ciclistica con la mia bicicletta nuova; eravamo partiti da Rho in 6-700.
Ad un tratto, passando da Cassina De’ Pecchi, paese vicino a Gorgonzola, uscì da un portone all’improvviso un maiale, che io presi in pieno, il che mi fece fare una capriola e rimasi muto e dolorante lì per terra; in quel mentre, una bestia, travestita da contadino, proprietario dell’animale, uscì di corsa e, senza nemmeno guardarmi, prese il suo maiale e rientrò nel suo cortile (bestia lui, con la sua bestia!).
E questa fu la mia prima gara!
Guardandomi in giro, oggi, mi rendo conto dell’enorme differenza di mezzi che sono a disposizione dei ciclisti oggigiorno: bici leggerissime, vestiario aderente (a buccia di cipolla), scarpe colorate in tinta con la muta; facendo un calcolo approssimativo, un cicloamatore può arrivare a spendere tranquillamente sui 10 milioni.
Ai nostri tempi, invece, ci si costruiva la bici poco alla volta ed eravamo in grado di riparare anche i palmer.
Andavamo in gita per allenarci, senza una lira in tasca e, alle volte, senza palmer di scorta; il più delle volte ci si aiutava tra di noi (era tutto più poetico!).
Una volta, sulla Madruzza (una salita) ci è venuta una gran fame e così, vista una pianta di ciliegie, ci siamo fermati e abbiamo riempiti la pancia coi dolci frutti; sfortuna volle che l’ultima ciliegia mi venne voglia di aprirla e all’interno trovai almeno 5 cagnotti perciò, facendo un rapido calcolo, più o meno 100 ciliegie per 5 cagnotti ciascuna, risulta che avevamo in pancia circa 500 cagnotti a testa.
Quelli sì, che erano bei tempi!
VENTITREESIMA
BERTO PUGILE
ALLA FESTA DELL’UNITA’ AL PARCO LAMBRO
Frequentavo da tre anni una palestra di pugilato che, se non sbaglio, si trovava in via Conservatorio.
Ci si allenava, in palestra, per imparare qualcosa che servisse come difesa personale, ma l’allenatore, il signor Bertoldini, voleva che io combattessi, così ci fece fare un’esibizione al Parco Lambro e partecipai, con tutti gli altri compagni della palestra, contro un’altra palestra,
Poco lontano dal ring, c’era l’onorevole Togliatti che teneva un comizio ma, appena iniziarono i combattimenti, molti ascoltatori lasciarono il raduno per vedere il pugilato.
Mentre stavo salendo sul quadrato, un signore si presentò da me dicendo: “Sono della Ditta Sante e Pietro, articoli sportivi” e, notando che portavo le scarpe da tennis, mi disse: “ Se vinci l’incontro, ti regalo un paio di scarpe per il pugilato, se pareggi ti do una scarpa sola e l’altra la paghi”.
Come era stato concordato, l’incontro finì alla pari, poiché si trattava di un’esibizione e non dovevamo affondare i colpi, per cui non andai a ritirare le scarpe.
Invece andò male ad un nostro atleta, mio amico, si chiamava Cipolla ed abitava in via Passerella, poiché il suo avversario lo colpì duramente, contravvenendo agli accordi presi, così il povero Cipolla scese dal ring tutto sanguinante.
L’unico che ho steso nella mia carriera di pugile, è stato un pipistrello che era entrato in palestra e nessuno riusciva a prendere; quando giunse sul quadrato dove mi stavo allenando, coi guantoni lo colpii al mento e andò a sbattere contro un grande specchio che usavamo come ombra.
Lo contarono fino a 9 e, visto che stava rinvenendo, lo portarono all’aperto e lo liberarono.
VENTIQUATTRESIMA
BERTO IN GITA
Durante una gita in bicicletta, fui lasciato solo, con il palmer bucato e senza una lira, dall’ultimo della comitiva, una carogna abitante in via DURINI.
Ero sfinito, poiché ogni 5 minuti dovevo gonfiare il copertone della bici, che si era bucato.
Mi aggrappai ad un camion, per farmi trainare un po’, dopo qualche chilometro, però, il palmer si arrotolò alla ruota posteriore e ruzzolai a terra per diversi metri.
Rimasi aggrovigliato alla bici, in mezzo alla strada, dolorante, sanguinante e attorcigliato; non riuscivo a rialzarmi per il dolore.
Dopo un po’ passò un uomo in bicicletta, quando mi vide mi disse: “Guarda, io non posso fermarmi, ma tra poco passerà mio nipote, fatti aiutare da lui” e così feci.
Appena arrivò il secondo ciclista, gli dissi: “Guarda che tuo zio mi ha detto di rivolgermi a te”, per fortuna erano in due, così uno caricò me sulla sua bici e l’altro prese il mezzo in spalla; mi portarono a casa loro, dove la madre mi medicò, mi diede da mangiare e dei soldi per tornare a casa in treno.
I gentili componenti di questa famiglia, che ringrazio ancora, erano dei prestinai; il giorno successivo, tornai per riprendere la bici e volevo restituire i soldi, ma loro rifiutarono.
Ero tornato a prendere la bici perché il mio amico Mario mi aveva invitato da lui, a PIETRALBA, dove, mi disse: “Là ti curerai le sbucciature”
Non ricordo più qual è il paese dove mi soccorsero, forse sulla Varesina.
Venticinquesima
OGGI POLLO ARROSTO!
Nel periodo in cui abitavamo in via Lentasio, un giorno vidi mia madre e mia sorella che stavano dando da mangiare ai piccioni sul davanzale della finestra; con un balzo felino afferrai un piccione con una rapidità tale che feci sobbalzare madre e figlia e, con soddisfazione, dissi: “Oggi: pollo arrosto!”.
A proposito di pollo, in quel periodo era l’unica carne che mangiavamo, e solo a Natale, per giunta; eppure, nonostante tutto ciò che ci capitava, le energie non ci mancavano, anche se, seppure senza volerlo, eravamo tutti vegetariani.
BERTO E I BEI TEMPI
Non capisco come mai nessuno parla più, o forse non se ne ricordano, ma una volta vicino all’Università Statale, tra via Pantano e via Sant’Ambrogio, c’era “El merca’ dei mucc” cioè dei mozziconi di sigarette che si raccoglievano da terra e poi, abilmente selezionati per colore di tabacco, venivano stesi per terra su giornali o stracci.
Vi erano una quarantina di venditori, con una vasta scelta e molti compratori. Ricordo in particolare un raccoglitore che divenne famoso per il modo in cui operava “alla Charlot”, infatti infilava i mozziconi servendosi di un bastoncino con la punta a spillo così, velocemente e senza abbassarsi, li metteva in tasca. Esercitava prevalentemente in piazza del Duomo, andava in cerca del tabacco pregiato di colore biondo, americano, che era il più richiesto.
E vi ricordate della mensa che fu allestita in piazza Diaz? Tramite un buono elargito ai più bisognosi, si poteva mangiare un pasto dagli strani sapori e una cioccolata dolciastra alla margarina. Io ogni tanto fui invitato e partecipai volentieri, devo dire per forza così altrimenti, in caso di una prossima guerra, non mi invitano più!
Qualche anno prima della guerra, era molto meglio, nei giorni di festa nostro padre ci dava un soldino col quale andavamo in fonda a via Durini, quasi all’angolo con largo Augusto, dove vi era una pasticceria che vendeva le briciole, raccolte dagli avanzi dei clienti e così potevamo mangiare qualcosa di buono spendendo poco.
Quelli sì che erano bei tempi!!!
E non vi dico, poi, dei viaggi che facevamo appesi al tram, in tre o quattro, e abbiamo continuato a farlo per diversi anni. Roba da matt
VENTISEIESIMA
BERTO AD ARCORE SOTTO LA MACCHINA
Un giorno, mentre Berto andava in giro col suo Gilerino nuovo fiammante, ancora col fermo sul carburatore, poiché la moto era in rodaggio e non poteva superare i 60 chilometri orari, ad un tratto uscì dal posteggio una vettura (una FIAT 500) che si trovava vicino ad un campo di calcio; il conducente della 500 si stava immettendo sulla strada senza guardare, Berto, con la sua moto, non poté evitarla e urtò la vettura sulla ruota anteriore sinistra.
Sbalzato sull’asfalto, cadde davanti alla 500 che, invece di frenare, lo investì passandogli sopra e si fermò davanti a un fosso.
Berto, cadendo, per istinto si raggomitolò e si ritrovò sotto la macchina rotolando e, ad ogni giro la sentiva sollevarsi di peso sopra di lui e, nel frattempo, riuscì ad ammirarne tutto il fondo, sporco di grasso.
Sentiva le donne che gridavano e in quei pochi istanti sotto la vettura, rivide in un baleno tutta la sua vita trascorsa, mentre pensava che sarebbe morto.
Venne poi ricoverato in ospedale, sbucciato come una banana!
Come al solito, il fratello Paolo e gli altri amici motociclisti erano andati avanti; loro avevano moto più grosse e non erano in rodaggio come quella di Berto.
Non c’era, nella sua compagnia, un minimo di organizzazione, se succedeva qualcosa, ci si doveva arrangiare, com’è accaduto al nostro amico.
Per fortuna, il nostro eroe aveva la pelle dura e se l’è sempre cavata; comunque, qualcuno in questa occasione ha vegliato su lui.
VENTISETTESIMA
BERTO E LE… MUTE – ANDE
Lo sapevate che le signore di via Montenapoleone non portano le “Mute-Ande”? Le Ande erano Mute e al loro posto, con nostro stupore, c’era un cespuglio (avete presente la barba di Garibaldi?!).
Lo abbiamo constatato, io e un altro garzone, poiché dalla cantina del negozio dove lavoravamo, si poteva vedere sopra, attraverso delle fessure che davano sulla strada, davanti alla vetrina del negozio.
Il mio era solo un “punto di vista” e, per sembrare esperto, dissi al mio amico: “Spettacolo già visto”, ricordandomi che qualche anno prima, da ragazzino, a Castel Goffredo, non sapendo come fare per farmi notare la sua barba, una ragazza salì su un albero e ne scese solo quando mi vide con la bocca aperta, senza fiato.
All’epoca avevo 11 anni, però capii subito che si trattava di qualcosa di invitante, visto che mi tiravano le … palle degli occhi ma, essendo timido ed immaturo, non ho saputo cogliere l’attimo fuggente.
Certe cose per noi erano tabù e, per giunta, lavoravo proprio alle spalle del Campanile di San Carlo, per cui certi argomenti si sfioravano appena, senza mai approfondirli.
Avrete forse capito che di tutte le situazioni che mi sono capitate, alcune le racconto con riluttanza e solo le parti che si possono rendere pubbliche.
VENTOTTESIMA
BERTO PESCATORE
Mi trovavo sul lago di Possiano, dove ero ospite del mio amico Fausto Morsia, il quale aveva una quota per la pesca in barca; parlo di diversi anni fa, quando il lago era un paradiso, non come ora che l’hanno ridotto una fogna.
Eravamo ancorati nei pressi di una legnaia affondata, come tante altre, nel lago, tra le quali i pesci potevano fare le uova e rifugiarsi.
Avevamo già preso diversi pesci persici, quando dissi: “Fausto, mi sono impigliato con l’amo nella legnaia e non riesco a sganciarmi”, lui mi rispose: “Tira, vedrai che verrà su qualche ramo” e così feci.
Ma all’improvviso sentii che c’era attaccato qualcosa di molto grosso, però, avendo il filo del 30, mi sentivo abbastanza tranquillo; ad un cero punto, ci accorgemmo che la barca addirittura si stava spostando, trainata dal pesce, allorché Fausto tirò su prontamente l’ancora, così fummo trascinati dal pesce!
A quel punto, diedi la canna a Fausto, più esperto di me, il quale mi disse: “Te g’he tacà un om” (= c’è attaccato un uomo).
Di lì a poco, la barca si diresse verso dei canneti, dove il grosso pesce s’infilò, vedemmo le canne aprirsi e poi si ruppe il filo, senza poter sapere di che pesce si trattasse (probabilmente era un grosso luccio che aveva ingoiato un pesce persico).
Nel trambusto, non ci accorgemmo che il cestino pieno di pesci era caduto in acqua e Fausto, sconsolato, disse: “Se non lo recuperiamo subito, torniamo a casa, perché è una giornata sfortunata”.
Tornammo alla legnaia e, con un ancoretta, Fausto cominciò a sondare il fondale per vedere di recuperare il cestino, mentre io, incredulo e sconsolato, scuotevo la testa, ma Fausto continuò imperterrito.
L’acqua, in quel punto, era alta circa 25 metri e, dopo vari rami, agganciò il cestino e proprio per il manico, incredibile, ma vero!
VENTINOVESIMA
BERTO PESCATORE SUL LAGO DI VARESE
Un giorno Berto, intento a pescare sul lago di Varese, vide che avevano scaricato nell’acqua degli scarti di marmo provenienti da qualche cimitero e, guardando bene, notò che una delle lapidi giaceva intatta, rovesciata sulla superficie del lago; per curiosità, la prese, la girò e … a momenti gli prese un colpo! Non ci crederete, ma sulla lapide vi erano incisi il nome ed il cognome del nostro amico al quale, come potrete immaginare, si congelò il sangue nelle vene, ma poi, guardando meglio, vide che le date non coincidevano e si rilassò.
E’ così, comunque, che Berto può ben dire di aver visto la propria lapide, la quale, se non credete alla storia, dovrebbe ancora trovarsi nel lago, scagliatavi da Berto, ad alcuni metri dalla riva.
A proposito di pesca, Berto ci tiene a dire che il suo maestro fu il suo amico Fausto Morsia di Piacenza, ex-ufficiale dei Bersaglieri, conosciutissimo in Svizzera, dato che per quarant’anni si recò a pescare a Locarno e ad Ascona dove si fece molti amici, tra cui la famiglia Pisciani e il sig. Rampazzi Antonio di Ascona; in seguito si unì a loro una ragazzina di nome Petra che pescò con loro per diversi anni.
VENTINOVESIMA BIS
EL TANO, GRANDE PESCATORE DI LODI
Altro personaggio che Berto ha conosciuto a Lodi, al quale dovrebbero fare un monumento o un libro alla memoria per la vita che ha condotto, fu “El Tano”, come veniva chiamato da tutti, o anche “Il Balcun di Lodi”.
Varie volte lo portarono a pescare sull’Adda, a circa 15 km da Lodi; lasciavano la Giardinetta di legno del Fausto in una cascina e si avviavano a piedi dentro una riserva di caccia e poi, finalmente, raggiungevano il fiume.
Dovevate vedere la canna fissa del Tano: pesava almeno 10 kg ed era lunga, se i ricordi di Berto sono esatti, 14 o 16 metri! Lì si pescavano i cavedani, con il pane o le budella di gallina.
La cosa più divertente era osservare il Tano che, mentre pescava, digrignava sempre i denti, tanto che, a furia di sfregarli, li aveva ridotti almeno della metà.; lanciava la lenza con un piccolo movimento della canna, il filo andava in avanti, tornava, poi andava di nuovo avanti, stendendosi in tutta la sua lunghezza, verso la sponda opposta del fiume.
Calcolando i 16 metri della canna più i 17 metri della canna, potete immaginare la distanza che riusciva a raggiungere.
Lui prendeva solo pesci molto grossi perché dovete sapere che il Tano, di mestiere, faceva proprio il pescatore ed è così che manteneva, alla meglio, la famiglia.
Una volta, il Tano, vide una gallina morta che scendeva il fiume, la tirò a riva con la canna, si mise subito a spiumarla e alla fine, rimirandola, disse: “Bianca, Bianchetta” e la mise nel suo tascapane.
Un detto che ripeteva spesso era: “Pan e pagn in bun compagn”, perché giustamente diceva che se hai qualcosa da mangiare ti sfami e se indossi qualche indumento in più e hai caldo, te lo puoi togliere, ma se non ne hai e fa freddo: sei fregato!
Il Tano è morto purtroppo da diversi anni ormai, ma mi piacerebbe sapere che fine ha fatto la sua canna, penso che esiste ancora dovrebbe essere esposta in un museo di pesca sul fiume.
TRENTESIMA
BERTO ALLERGICO AI PARRUCCHIERI
Ora vi spiego perché quando vado dal parrucchiere mi faccio fare solo i capelli e mai la barba.
Avevo 19 anni e dovevo consegnare a un ditta degli anellini per appendere delle forme di alluminio.
Dovendo presentarmi per la prima volta in quella ditta, volevo essere in ordine e, avendo un po’ di peluria, andai da un parrucchiere, in un paesino sulla provinciale andando verso Gorgonzola.
Entrai dal parrucchiere e, dopo essermi seduto, dissi: “Solo barba” (30 peli in tutto!).
Il parrucchiere mi insaponò e mi fece la prima passata col rasoio poi, con mio stupore, mi infilò un ditone in bocca, prima a sinistra e poi, l’altro ditone, a destra.
A me, che stavo per vomitare, sembrò una cosa pazzesca ma, rispettoso delle usanze, non dissi niente e, dopo aver pagato, uscii e cominciai a sputare e continuai per tutta la mattina, mentre pensavo: “Ma come sono civili in questo paese!”.
Mi hanno poi spiegato che fanno così per tendere la pelle delle guance ed eliminare meglio i peli rimasti.
Comunque, io per tutta la vita non mi sono più fatto fare la barba anzi, memore dell’accaduto, quando vado dal parrucchiere, specifico subito: “Solo i capelli”.
Pensate di assaggiare i pollicioni dei barbieri per tutta la vita: puah!
Così mi è venuto spontaneo di fare una considerazione: ecco perché tanti portano la barba lunga, probabilmente è capitata loro la stessa disavventura, perciò preferiscono tenersi barba e baffi!
TRENTUNESIMA
BERTO E LA PASTA COLLA
Al corso di pilota-carri vi era un ufficiale istruttore che era un bravo disegnatore, infatti inviava spesso cartoline disegnate da lui, in pochi minuti. Un giorno, Berto e un gruppo di militari di Milano andarono dall’ufficiale a protestare perché la pastasciutta era un blocco unico, immangiabile. Così, con un pentolone di pasta e un mestolo, seguirono l’istruttore dal Colonnello; per sua disgrazia, il pentolone lo portava Berto, il quale riempì col contenuto tutti i portacenere a colonna che trovò lungo il tragitto. Il Colonnello li ricevette e li congedò subito dopo, non li mandò in congedo, bensì li fece ritornare in camerata, trattenendo solo il povero ufficiale, che venne redarguito. Tutti gli altri, compreso Berto, dopo il corso vennero trasferiti in un posto lontano e molto scomodo.
IL CAMIONCINO CON UNA SOLA MARCIA
Berto stava partecipando ad una lezione di scuola-guida su di un camioncino anteguerra, uno SPA; erano una trentina di allievi che si alternavano alla guida. Quando giunse il momento di Berto, ingranò la prima e stette molto attento con la frizione, per fare una partenza senza strappi, dopo un po’ il Sergente disse: “Cambia, cioè passa in seconda”, ma Berto rispose che non c’erano più marce, poiché aveva messo la quinta e sperava che il Sergente non si accorgesse dell’errore, visto che il mezzo, ormai, andava ad una buona velocità.
Berto sembrava avere la calamita per i guai e aveva la faccia da cretino, senza che lo sapesse. Un giorno andò da lui un commilitone che gli chiese un favore e il nostro amico rispose: “Se posso, te lo faccio”, credendo che gli cercasse dei soldi, invece il ragazzo tirò fuori da una scatola un mattone e gli spiegò che era sposato e che doveva tornare da sua moglie, così gli chiese di rompergli un braccio col mattone, per poter andare a casa. Berto stette un attimo a pensarci su, poi gli rispose:” Se non te ne vai, il mattone te lo rompo in testa!”.
TRENTADUESIMA
BERTO PILOTA E IL BOROTALCO
Dopo una dimostrazione con lo squadrone-carri, rientrammo al campo, dove l’abilità del pilota si dimostrava nel fermare il carro, schierandolo in perfetto allineamento con gli carri.
Berto era l’ultimo e, davanti ai vari comandanti, fece una manovra a forte andatura, fermando il carro perfettamente allineato; stava già gongolando per la perfetta manovra, pensando: “Ora potrebbero darmi una medaglia alla bravura”, ma non aveva fatto i conti col borotalco, cioè circa 30 centimetri di polvere che avevano prodotto i carri passando di continuo sul terreno asciutto.
In breve, tutto il campo fu avvolto da una nube di polvere, che fece trattenere il respiro a tutti e li lasciò muti per un po’; in quei momenti Berto pensò: “Forse non me la danno, la medaglia!”.
Appena si terse l’aria, si sentì l’urlo del comandante del battaglione, un po’ strozzato dalla polvere: “Tre giorni di sospensione a quel pilota!”. E Berto ci rimase male, pensando all’ingratitudine della gente.
Altri 3 giorni di sospensione li prese il giorno dopo, quando all’ora di pranzo si avvicinò con la gavetta al pentolone della pastasciutta e disse al militare di turno: “Dammene poca”, vedendo i blocchi di pasta tutti incollati; per tutta risposta, il deficiente gli riempì la gavetta fino a farla traboccare, così ne rovesciò un po’ di nuovo nella pentola.
L’ufficiale di giornata presente, lo punì per questo, poiché, secondo lui, aveva commesso un delitto contro l’igiene.
Queste perché non ha guardato prima nel pentolone, quando l’acqua stava bollendo e hanno dovuto schiumarla per togliere tutti gli insetti che vi erano caduti dentro: c’erano mosche, farfalle, e persino una cavalletta!
Alla faccia dell’igiene!!!
TRENTATREESIMA
BERTO PILOTA AL SALTO
Era arrivato un nuovo Capitano al campo e con lui ci avviammo per raggiungere il plotone-carri, che si trovava fuori per una dimostrazione durante le quali, a volte, vi erano degli ufficiali di alto grado provenienti da diverse nazioni.
Ci avviammo col carro al luogo della dimostrazione e, sapendo che durante il tragitto avremmo dovuto o saltare dei canali in cemento larghi circa 3 metri, o passare su dei piccoli ponti di ferro, chiesi al Capitano se voleva provare il salto del canale, ma lui mi rispose di no, allora passai sul piccolo ponte di ferro e, poiché volevo impressionare il Capitano, lo attraversai a forte andatura; il problema, però, era che il ponte era veramente molto stretto e si passava con un margine di pochi centimetri per lato, ma riuscii a passare comunque velocemente e senza danni.
ADDESTRAMENTO FUORI ORDINANZA
Il nostro Sergente ogni tanto ci sfidava, ci metteva alla prova per verificare se eravamo coraggiosi o dei “Cagasotto”, così quel giorno ci disse: “questo esercizio non è obbligatorio, chi ha paura si può ritirare”.
Mi fece condurre il carro-armato fino a che raggiunse una buona velocità, a quel punto bloccò l’acceleratore a mano, affinché il carro viaggiasse da solo, poi uno alla volta (eravamo in 5) ci fece aprire la botola di emergenza, che si trova sul fondo del mezzo, e ci fece uscire da sotto il carro, che sobbalzava sul prato e che intanto si allontanava da solo, una volta usciti tutti, rincorremmo il carro e salimmo da dietro, per poi ricominciare da capo a calarci, e così via, per diversi giri.
Faceva impressione quando il mezzo di 24 tonnellate ti passava sopra, con grande rumore; ma almeno il Sergente era contento!
TRENTAQUATTRESIMA
Berto e le pavoncelle
Durante il servizio militare, nel corpo dei carristi, un giorno avvenne che un sergente mi diede due cartucce e un fucile (di un bersagliere), poiché gli avevo promesso che gli avrei portato due pavoncelle.
Vi erano diversi voli di pavoncelle, ma erano inavvicinabili;io mi ero appostato da diverso tempo ormai in un canale e di fronte a me avevo il prato con gli uccelli, ma purtroppo non arrivavano mai a tiro.
Ad un tratto suonò l’adunata, cosicché feci per avviarmi, quando vidi gli altri militari che sopraggiungevano anch’essi richiamati dallo squillo della tromba, e a quel punto le pavoncelle, spaventate, si alzarono in volo sopra il mio nascondiglio; sparai due colpi e due volatili caddero a terra,allorché i militari che si stavano già schierando,corsero a raccogliere le pavoncelle.
Io uscii dal mio rifugio sotto lo sguardo dell’ufficiale di turno e pensai: “Qui mi prendo una medaglia come la volta del borotalco”, ma per fortuna non disse nulla, forse anche perché mi vide consegnare i pennuti che avevo colpito al sergente.
Il solito sergente, durante una dimostrazione, mi fece scendere con il carro armato in una buca a strapiombo,per prendere il nemico alle spalle;da lì, però,non si era mai scesi perché il fondo era troppo stretto,ed infatti, nel tentativo di risalire rimasi incrodato(ossia bloccato incastrato)e dopo diversi tentativi dissi al sergente:”Qui ci vuole il carro attrezzi per tirarci fuori!”, ma il sergente, che non voleva subire quell’onta, prese i comandi del mezzo e dopo varie e rabbiose manovre riuscì a farci uscire.
In seguito capii che il carro non funzionava come prima,infatti controllando l’olio mi accorsi che nella coppa era entrata dell’acqua, così riferii al sergente che probabilmente avevamo bruciato la testata; Ma egli non si perse d’animo e, siccome voleva vincere a tutti i costi le esercitazioni,mi disse: “Vai a piedi lungo quel fossato, troverai i nemici, cerca di farli prigionieri”. Mi calai nel fossato e vi trovai delle squadre di bersaglieri con le mitragliatrici;in silenzio li catturai, gruppo dopo gruppo e, con la pistola puntata, ma scarica, li consegnai al sergente e ai vari comandanti della manovra, i quali ci rimasero molto male poiché non era previsto che noi vincessimo.
TRENTACINQUESIMA
BERTO IN GITA A NAPOLI
Durante il servizio militare, Berto, con un gruppo di commilitoni, andò a visitare Napoli, sia per conoscere la città che per vedere il mare per la prima volta e, mentre si trovava in Via Caracciolo, volle accertarsi del fatto che il mare fosse veramente salato, così lo assaggiò.
Andarono poi in cerca di un ristorantino dove si spendesse poco e si inoltrarono in un vicolo.
Poco dopo, Berto chiese ad una vecchia dove si potessero mangiare delle uova con un po’ di insalata, in risposta, la signora ci disse: “Venite accà, trasite” (che, tradotto significa: “Venite qua, entrate”) che avrebbe pensato lei a dar loro da mangiare.
Entrarono , li fece accomodare attorno al tavolo, mentre lei cominciò a cucinare una grande frittata; intanto, Berto, sbirciando dietro la tenda che dava in cucina, vide con raccapriccio che la vecchia Befana sdentata aveva messo in bocca olio e aceto e, dopo averli ben mescolati, spruzzò il tutto nell’insalata, compresa la dentiera!. A Berto uscirono gli occhi dalla testa, avvisò i commilitoni e fuggirono tutti, dileguandosi per le vie di Napoli.
TRENTASEIESIMA
BERTO E IL TESTA-DURA
Eccovi un altro episodio accaduto durante il periodo del servizio militare.
C’era tra noi un militare, proveniente da Borgo Panigale in provincia di Bologna, con la testa dura, ma così dura che lo soprannominammo “Testa di rinoceronte” , poiché si divertiva a gettare i sassi in aria per poi colpirli con la fronte, si trattava di sassi anche piuttosto grossi e si sentiva un rumore sordo al momento dell’impatto.
Aveva l’abitudine di rompersi in testa piatti e altri oggetti, ma il suo pezzo forte consisteva nell’appoggiare il gavettino al muro e appiattirlo a furia di testate; non so come non si sia mai rotto la testa, visto che il gavettino era durissimo.
Un giorno, con un gruppo di amici commilitoni, mi trovavo in una piccola stazione e, mentre aspettavamo il treno per andare in gita, il Rinoceronte cominciò a stuzzicarmi con un ramo, siccome continuò a farlo per parecchio, ad un certo punto mi stancai, afferrai il ramo e gli dissi: “Piantala!”, allorché lui si mise a correre come un matto. In un primo momento non capii il motivo per cui scappasse, ma poco dopo compresi, anzi, sentii il perché: aveva infilato la punta del ramo in una merda di cane!
Rimasi di cacca, pensando che avevo fatto proprio bene a non usare le mani quando feci quella scultura di feci!
Avrei voluto prendere lo “Stuzzicatore”, ma 4 amici mi fermarono, al che io dissi: “Guardate che volevo solamente fargliela mangiare” ma, purtroppo, il Rinoceronte non mi capitò più a tiro, per tutto il periodo di ferma.
Generoso come sono, dopo quasi cinquant’anni, non l’ho ancora perdonato, però mi piacerebbe ritrovarlo, e con lui tutti coloro che ho menzionato nei vari aneddoti
TRENTASETTESIMA
BERTO E LA BRILLANTINA DI BUFALA
Vi racconto ora un’altra storia incredibile.
Un giorno, un Caporale Maggiore, con mio grande stupore, mi disse: “Se mi dai mille lire, io metto la testa in una merda di bufala”.
E così, anche se ero quasi sempre senza una lira, accettai , ma solo per il gusto di vedere un graduato infilare la testa in quella “buassa” di bufala, calda e molle.
L’ufficiale infilò veramente il capo nella cacca e io, per rincarare la dose, gli dissi: “Gira la testa più volte, dentro” ed egli lo fece.
Mi spiegò , dopo che gli diedi la mille lire, che lo avrebbe fatto anche gratis poiché, essendo lui senza capelli, gli avevano detto che in quel modo gli sarebbero ricresciuti.
E così mi fregò la mille lire, io, però, mi ero arricchito di un’esperienza unica.
Dicevano tutti che le cretinate me le andassi a cercare ma, come avete visto, erano loro che venivano da me.
TRENTOTTESIMA
BERTO E IL CORVO PICCIONATO
Andavamo a cacciare gli uccelli con un bersagliere, il quale possedeva un fucile e, ogni tanto, quando ne avevamo un po’, li facevamo cucinare ad una signora che abitava in caserma.
Quella volta prendemmo anche un corvo e il bersagliere disse: “Non buttiamolo, vedrai che qualcuno lo mangerà” e così gli togliemmo la pelle.
Chi veniva invitato a mangiare i proventi della nostra caccia doveva pagare una piccola somma per la cottura.
Stavolta capitò al mio amico Resmini, che abitava a Milano, vicino all’Arco della Pace, credo in Via Bertani; noi che sapevamo, offrimmo il corvo proprio a lui, dicendogli che si trattava di un piccione così, mentre lo mangiava, disse, in milanese: “Ah, l’è bun, ma l’è un pu’ dur” (cioè: “E’ buono, ma è un po’ duro”).
Mi dispiacque un po’ perché il Resmini mi prestava sempre qualche lira per la libera uscita.
Spero che non me ne voglia, ma intanto anche lui è passato alla storia, grazie a questo fatto, in questo mio libro.
Ricordo che, durante la libera uscita, andavamo in un paese vicino; il più delle volte si andava al cinema o a mangiare delle frittate gigantesche, oppure ancora in una pizzeria, dove la pizza costava 100 lire, era molto grande e la mangiavamo di gusto.
Dopo di che si andava a “fare le vasche”, cioè a girare in tondo, attorno alla piazza, guardando le ragazze, le quali ci consideravano meno di zero.
TRENTANOVESIMA
BERTO LOTTATORE PER FORZA
Come ho già altrove, sembrava che me andassi a cercare, ma non era così.
C’era un bersagliere di Brescia, simpatico ma un po’ incosciente, che probabilmente era venuto a sapere che avevo fatto palestra e pugilato, perciò ogni volta che mi incontrava, voleva misurarsi con me nella lotta e, puntualmente, lo scaraventavo per terra, anche se pesava almeno 20 chili più di me.
Il guaio era che purtroppo lui non badava a dove ci trovassimo o come fossimo vestiti, ma in qualsiasi posto mi trovava, mi saltava addosso per una rivincita, per questo durante la libera uscita lo evitavo.
Una volta mi trovò in mensa e, con in bocca un grosso toscano, mi assalì alle spalle davanti a tutti, al che io reagii scaraventandolo per terra e schiacciandogli il sigaro in bocca.
Poco dopo, a tavola, mi tirò un pezzo di pane e io gli tirai mezza pagnotta in testa.
La scena fu vista dall’ufficiale di picchetto, che mi disse: “Presentati da me, dopo, senza lacci e cravatta”, voleva mettermi i n prigione, ma io non mi consegnai; me la cavai poiché non era della mia Arma e non mi conosceva, mi cercò per una settimana ma, visto che ci si assomigliava un po’ tutti, non mi trovò.
ALTRO EPISODIO
Due militari che provenivano dallo stesso paese, stavano per venire alle mani per dei loro motivi familiari.
Visto che uno sembrava un toro infuriato e l’altro un pacioccone ed era, anche, il figlio del padrone del posto dove lavorava il toro, mi intromisi perché lo avrebbe massacrato.
Balzai alle spalle del toro, con una mossa di lotta libera, la doppia “Elsen”, lo immobilizzai e dovetti tenerlo con la testa schiacciata in avanti per almeno un quarto d’ora, finché i bollenti spiriti non furono passati.
Quarantesima
Berto e l’albero
Berto abile pilota carro, ogni tanto doveva, oltre alle varie dimostrazioni,presentare il carro, cioè spiegare il suo funzionamento a diversi ufficiali e sottufficiali delle varie armi; per far ciò, caricava sul carro una decina di militari e si avviava a fare un determinato percorso.
Ad un certo punto il Berto vide davanti a sé sulla strada un alberello e puntò deciso su di esso; gli allievi, visto che non aveva ancora cominciato a deviare, lo guardarono credendo che all’ultimo momento lo avrebbe schivato, ma non fu così, e travolse l’albero, cosicché il carro e gli allievi si riempirono di ghiande!.
Berto non era il solo a dare i numeri
Era domenica mattina, eravamo stesi in branda, liberi da impegni e qualcuno era tornato a dormire.
Ad un tratto, il sergente gettò in camerata, attraverso una finestra aperta, una bomba lacrimogena; io, che ero vestito, uscii dalla porta e, vedendo i miei commilitoni, in mutande, che annaspavano tra il fumo e ne uscivano malconci,pensai: “Esagerati!” e dissi tra me: “Voglio attraversare la cortina fumogena trattenendo il respiro”, così, correndo attraversai la lunga camerata per uscire sul retro, dalla porta dei gabinetti.
Non l’avessi mai fatto! Non avevo calcolato che il gas penetrava negli occhi,così a momenti cadevo svenuto. Ma, per fortuna, riuscii a raggiungere l’uscita, pensando: ” Ma come sono furbo io!”.
QUARANTUNESIMA
BURBA MALEDETTA
Ero di servizio come capoposto, poiché ero stato promosso Caporale, e cercavo di svolgere il mio dovere con precisione.
Trascorsi tutta la notte sveglio a sorvegliare con scrupolo la polveriera, il parco mezzi e tutto il complesso di abitazioni e casermette, poiché erano tempi pericolosi e c’era poco da scherzare; di sentinella, in garitta, c’era una recluta appena arrivata e al mattino presto gli dissi: “Guarda che tra un po’ passa il Comandante del Battaglione e bisogna schierare la guardia, come di consuetudine, perciò appena vedi il Colonnello, grida forte: Guardia!”, poi aggiunsi: “Io vado un attimo a lavarmi la faccia, mi raccomando!”.
Tornai, poco dopo, e vidi la garitta vuota con il fucile abbandonato in un angolo.
Il Colonnello e l’Ufficiale di guardia, mi aspettavano furiosi, poiché il Colonnello era passato di proposito, per ben due volte, e la Guardia non era stata schierata; nel frattempo, vedemmo la recluta arrivare dallo spaccio, con un bombolone caldo in bocca e, come se nulla fosse accaduto, riprese il suo fucile e si rimise in garitta.
Il Colonnello disse all’Ufficiale: “Dia tre giorni di rigore al Caporale”; ma per fortuna, l’Ufficiale tramutò la punizione in tre giorni di sospensione.
Per quanto riguarda la recluta, sorvolarono sull’accaduto, non fu nemmeno punita, poiché l’abbandono del posto di guardia e del fucile è un fatto troppo grave e la pena sarebbe stata veramente drastica.
Più tardi, mi rivolsi alla “Burba” e gli dissi che se per colpa sua avrei dovuto scontare tre giorni in più ferma, l’avrei strozzato
quarantaduesima
Berto militare
Mi trovavo in mensa con i miei commilitoni a gustare degli spezzatini, unico cibo gradevole della caserma,quando dalle mie spalle arrivò una voce che ordinò: “Attenti!”.
Quando fummo tutti in piedi, l’uomo che aveva parlato prima disse:” io sono il nuovo sottotenente e prendo il comando del battaglione”.
Si presentò così,da solo,parlò per alcuni minuti (intanto gli spezzatini si raffreddavano) e poi si congedò.
Io,che ero ormai quasi congedante,gridai: “Burba!” e,siccome in quel momento in mensa c’era un silenzio di tomba,la mia voce si udì potente.
Il sottotenente si girò,infuriato,ma così infuriato che gli usciva il fumo dagl’occhi, e chiese: “Chi è stato?” , nessuno fiatò, dopo qualche minuto se ne andò, a mani vuote:e di nuovo io gridai: “Burba!”.
Rientrò per la seconda volta e stavolta sembrava volesse demolire il locale mensa, ma non ottenne nulla e se ne andò nuovamente; ed io, per la terza volta gridai: “Burba!”, ma questa volta non tornò indietro.
Nessuno delle centinaia di militari presenti fece la spia.
Il giorno successivo tentarono ancora di rintracciare il colpevole, ma senza esito e così, per punizione, ogni volta che si usciva da qualsiasi locale, tutto il battaglione doveva farlo correndo.
Gli spezzatini erano veramente l’unica cibo gradevole della mensa, infatti anche la pasta ce la davano sempre senza formaggio, tranne quando c’era qualche generale in visita, eppure venivano acquistate diverse forme di formaggio parmigiano; si vede che in mensa c’era qualche mago specializzato proprio nella sparizione di cose di questo genere..(Alimentare !)
Quarantaquattresima
Berto campeggiatore
Io e la mia famiglia eravamo arrivati in un campeggio vicino a Milano Marittima e, mentre stavo studiando dove piazzare la tenda, mi si avvicinò un signore sulla cinquantina e mi consigliò di sistemarla in una zona vicino alla sua, ma notai che quella si trovava in un avvallamento, così gli dissi di no e mi piazzai più in alto, anche se un po’ in pendenza.
Montai la tenda e, col permesso della direzione, scavai dei canaletti tutt’intorno con i relativi scoli e a quel punto arrivò il solito signore che mi disse: ”tanto qui non piove mai!”.
Per la serie: ”le ultime parole famose…” di notte arrivò un violentissimo temporale e al mattino trovammo i nostri vicini in macchina, dove avevano dovuto passare la notte, visto che la loro tenda si era allagata.
Andai con un secchio per dare una mano, ma egli cominciò ad inveire contro di me, dicendo che erano stati i miei canaletti a convogliare l’acqua verso di lui; tentai di spiegargli che la sua tenda era situata in una buca e dunque l’acqua si sarebbe comunque accumulata in quel punto,ma lui continuava e allora, per farlo stare zitto gli dissi: ”guardi che se non la pianta,le cambio i connotati tanto che poi deve rifare la carta d’identità !”, a quel punto, capita l’antifona, smise di urlare.
Quarantacinquesima
Berto e il fritto misto
Mi trovavo a Imperia, con la mia famiglia, per far visita ad una mia sorella,ma siccome era quasi mezzogiorno, prima di recarci da lei cercammo un ristorante.
Siamo entrati in un locale, ci sedemmo e ordinammo: per primo prendemmo tutti la pasta e per secondo io presi la frittura di pesce, mia moglie le cotolette e mio figlio le scaloppine.
Finito il primo, mi portarono il vassoio col fritto misto:era per almeno 6 persone!E siccome eravamo i soli clienti presenti nel ristorante,mi chiesi: ”ma quel pesce è tutto mio? o devo prendere solo la mia porzione?”.
Comunque,pur continuando ad avere questo dubbio, poco alla volta lo mangiai tutto.
Alla fine mi sembrò che il cameriere cercasse il pesce; probabilmente il cuoco l’aveva preparato anche per loro.
Fatto sta che il conto risultò pressappoco così:primi e secondi £20000 ed il mio piatto di frittura £26000!.
Eravamo circa nel 1965.(che mangiata però!!!)
Quarantaseiesima
Berto in Sicilia
Trovandomi in ferie in Sicilia, in un paese a circa 10 Km dal mare,mi capitò una cosa strana…
Mi recai dal macellaio con mio figlio piccolo e mi misi in coda ad una decina di clienti, che,educatamente, salutai.
Erano schierati tutti di fronte al bancone e,mentre il macellaio tagliava a pezzi della carne, colloquiava amabilmente con loro,ma io non capivo molto.
Ad un tratto, tutti i clienti si ritirarono,così mi ritrovai primo della fila,mi dissero: “prego”, mi avvicinai al banco e dissi al macellaio: ”mi dia 2 Kg di bistecche”,il proprietario del negozio mi guardò e senza dire nulla prese un altro pezzo di carne.
A quel punto mi ritrovai di nuovo ultimo,rimasi sorpreso un attimo ma poi capii la situazione: lì devi prendere quello che ti capita, in base a quello che sta tagliando il macellaio e non a quello che si è richiesto feci dietro front e uscii dal negozio.
Comunque,devo dire che la Sicilia è molto bella, anche se noi,coi pochi mezzi (economici) a nostra disposizione,dovevamo adattarci a trascorrere le ferie in zone interne,magari in qualche casa prestata da amici e per arrivare alla spiaggia dovevamo percorrere diversi chilometri tutti i giorni.
Quarantasettesima
Berto detentore di un titolo
Voglio raccontarvi qualcosa a proposito di mio fratello Emilio, il quale ogni tanto mi portava in qualche bar per farmi confrontare a braccio di ferro con qualcuno,mi procurava degli sfidanti, insomma.
Quella volta in particolare, lo sfidante era un barista di circa 25 anni,abitante nella zona di Porta Ticinese e, precisamente, in Via Molino delle Armi.
L’ avversario mi sovrastava,pesava almeno un quintale,meno male che si trattava di un pacioccone,così l’ho battuto facilmente.
Ogni tanto, mio fratello,mi faceva sfidare degli anziani d’azienda,ai quali,per intimorirli, ripetevo la solita frase di rito: “Ma te m’è portà chi un veget?” che puntualmente funzionava; qualsiasi fosse l’avversario,io vincevo.
Una volta, però mi andò male,Emilio e i suoi colleghi mi portarono come avversario un loro amico, un capo linea (ex battilastra)
Sulla cinquantina;quando lo vidi,ripetei la solita frase.
Non l’avessi mai fatto!
Lo sfidante al titolo mi prese,mi sollevò come di peso e mi depositò sulla sedia dietro la mia scrivania;mi prese il braccio e mi strapazzò come un fuscello:su e giù.
A quel punto mi resi conto che la frase di rito, non solo non lo aveva impressionato, ma anzi, aveva sortito l’effetto contrario, facendolo infuriare; fu così che perdetti il titolo, che tra l’altro mi ero inventato.
Quarantottesima
Berto inventore
Ci credereste che ho progettato e brevettato un sistema per fare in modo che le autovetture non si incendino dopo un incidente?.
Eppure è vero e funziona così: si tratta di un sensore che in seguito all’urto aziona una bomboletta di liquido che, immesso a pressione nel serbatoio della benzina, la rende ininfiammabile. Esiste pure la versione manuale, tramite un pulsante che produce gli stessi effetti del sensore e, cioè, aziona la bomboletta.
In questo modo la vettura non si incendia e, anche se esiste il disagio che deve essere per forza trainata in officina per pulire il serbatoio, per lo meno gli occupanti sono al sicuro dai pericoli che possono derivare da un incendio.
Il brevetto è stato depositato, ma non è stato commercializzato per mancanza di fondi.
Ho sottoposto il mio brevetto alla Fiat, inviando loro tutte le fotocopie della documentazione, ma mi fu risposto che loro in quel momento sulle loro auto da corsa utilizzavano un sistema di serbatoi comunicanti e che pertanto, il mio sistema non era compatibile col loro.
Berto veggente e indovino
Mi trovavo in una tintoria e, mentre aspettavo che confezionassero il mio pacchetto, entro una signora che chiese se la sua gonna fosse pronta, così, tramite il numero riportato sullo scontrino, la commessa cominciò a cercare il capo, appeso ad un binario, tra centinaia di altri abiti.
Io non so perché, ma ad un tratto dissi: “E’ quella lì, la sua gonna? ”E tra lo stupore generale, risultò essere veramente quella!.
Pagai e salutai, lasciando tutti sbigottiti.
Da allora cerco di indovinare nome e cognome di chi incontro ma, finora, non ci sono mai riuscito.
Quarantanovesima
Berto lanciatore infallibile
Tornando da una festicciola con degli amici, Berto vide una babola (trattasi di pietra perfettamente rotonda) e più avanti ancora, a circa 13 metri di distanza, mezzo mattone, al che Berto disse ai suoi amici: “Attenti, che spacco in due il mattone con la babola”.
Ma uno degli amici lo fermò dicendo: “Io ci scommetto il mio orologio, ma se perdi, paghi da bere per tutti” e così dicendo, pose il suo orologio sopra il mattone.
Berto accettò e si apprestò a lanciare la pietra,ma l’amico si mise con un piede vicino al mattone, dove vi era l’orologio, e precisò che siccome l’orologio era di valore, se intuiva che la pietra potesse centrare il bersaglio, avrebbe spostato l’orologio e avrebbe offerto lui da bere.
Berto prese la mira e, sputando sulla babola, disse: “Alto a piombo,sempre si vince!” l’amico, vedendo la traiettoria del tiro,disse soddisfatto: ”lungo”, ma dopo un secondo l’orologio era diventato una frittata e allora scoppiarono tutti a ridere, tenendosi la pancia per non esplodere e Berto disse: “e adesso paghi da bere per tutti”.
cinquantesima
Berto e un grande sacrificio
Non si sa come,ma il Berto era diventato capo-area in una grande industria, con diversi operai e impiegati alle sue dipendenze : “sarà forse stato merito dell’accumulo di cervello delle teste di gallina mangiate da ragazzino?”; comunque, era solito giocare di comune accordo coi colleghi d’ufficio, la solita cifra settimanale alla Sisal, ma quel giorno gli altri volevano giocare un importo più alto.
Berto non accettò e compilò, da solo, una schedina da 200 £ ; i colleghi si misero a ridere e allora buttò la schedina nel cestino ma, poiché continuavano a ridere, riprese la schedina dal cestino, la giocò e dietro ci scrisse: “Se vinco, non pago nemmeno un caffè!”.
La domenica sera, controllando i risultati, vide che aveva fatto un bel 12,così si intascò 1.200.000 £, senza rivelare la vincita ai suoi colleghi e questo, per lui chiacchierone qual è, è stato un grande sacrificio.
Altro episodio di lavoro
Nella ditta nella quale lavorava Berto, c’era sicuramente uno più fortunato di lui,questo almeno è ciò che ha pensato,ripensando a quest’episodio che gli è capitato.
Entrò in un gabinetto del reparto, un locale ampio con quattro porte e i lavabi per lavarsi le mani. Si addentro in uno dei cessi e lo spettacolo che vide gli fece rizzare i capelli:nel buco della tazza c’era un enorme ”strudel”di almeno trenta centimetri,mezzo dentro e mezzo fuori, sembrava quasi che lo guardasse; cercò subito di farlo scendere, azionando ripetutamente lo sciacquone, ma quello non si spostava.
Era terrorizzato dall’idea che se l’avessero visto uscire, avrebbero creduto che quel coso lo aveva partorito lui e sicuramente,lo avrebbero portato in trionfo.
Aspettò per almeno venti minuti,finche sentì che tutti si erano recati in mensa, e questa fu la sua salvezza, così poté fuggire,ma fu inseguito da un pensierino: ”ma in ditta non conosco nessun gigante!”, poi pensò anche: ”sarà stato un comune mortale, stitico da almeno un mese?”.
Berto sa benissimo che poteva fare a meno di ricordare quest’aneddoto
L ’ha fatto per dare quel tocco poetico, giusto per completare l’opera
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